Ma nel loro codice genetico c’è una radice profonda, spesso ignorata: sono nati in inglese.
Tutto, dai dataset iniziali al modo in cui costruiscono le frasi, è impregnato di una lingua dove il soggetto non è mai in dubbio.
L’inglese non lascia spazio all’ambiguità:
“I run”, “He speaks”, “They know”.
Il soggetto è sempre lì. In campo. Inquadrato. Al centro.
È come un cinema che non ama il fuori fuoco.
Ogni personaggio deve avere un volto, ogni azione un attore.
Ma l’italiano no.
Noi veniamo da un altro tipo di film.
Uno dove la grammatica è una coreografia sottile.
Dove il soggetto può anche non esserci, se tutti capiscono chi sta agendo.
Un “Scrivo” basta a evocare il gesto, la voce, il tempo.
Non c’è bisogno di dire “Io scrivo”.
È sottinteso. È implicito.
È arte.
Ecco perché, spesso, quando un LLM traduce dall’inglese all’italiano, qualcosa si spezza.
La frase perde grazia.
Il ritmo inciampa.
Il risultato suona come se lo stesse leggendo un turista incerto,
che ha imparato l’italiano con Duolingo
ma non ha mai visto un film di Scola.
Non è solo un problema di traduzione.
È un problema di sguardo.
Perché una lingua è un modo di vedere il mondo.
E se l’intelligenza artificiale è nata guardandolo solo in inglese,
allora dobbiamo insegnarle anche la nostra luce.
Le nostre ombre.
Il nostro silenzio pieno di significato.
I LLM non sono sbagliati, ma rispecchiano la cultura in cui sono stati formati.
E finché non avremo il coraggio di riscrivere – non solo correggere –
continueremo a leggere frasi che sembrano belle,
ma che non ci appartengono davvero.
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“Tradurre è dire quasi la stessa cosa.”
— Umberto Eco
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