L’Academy ha appena spalancato le porte dell’Olimpo cinematografico all’intelligenza artificiale, dichiarando con gelida neutralità che il suo utilizzo “non influirà né positivamente né negativamente” sulle nomination all’Oscar. Ma questa non è neutralità. È una vile capitolazione, un tradimento consumato in piena luce. Una dichiarazione d’impotenza travestita da apertura mentale. È come se avessero sussurrato: non sappiamo più cosa difendere, quindi arrendiamoci in silenzio. Il risultato? Il cavallo di Troia è già nella città. E gli stessi custodi della cittadella hanno spalancato le porte, applaudendo la propria esecuzione.
Adrian Brody riceve l’Oscar per “The Brutalist” con un accento ungherese ottimizzato da un algoritmo. Un dettaglio all’apparenza innocuo, ma è la prima metastasi in un corpo ancora in piedi. Non è solo una metastasi, è un’auto-cannibalizzazione travestita da progresso. Hollywood divora la propria anima e chiama questa auto-fagocitazione ‘evoluzione’. Intanto Reddit brucia: “È l’esecuzione pubblica della creatività umana,” scrive un utente. “Stanno normalizzando la sostituzione degli artisti con linee di codice.” E ha ragione. Stiamo assistendo alla trasformazione della narrazione in un processo di ottimizzazione. È l’industrializzazione dell’anima umana, l’ultimo territorio vergine conquistato dal capitale. Non più ispirazione, ma calcolo. Non più voce, ma output. Non più cuore, ma prompt.
I grandi quotidiani lo dicono chiaramente. Il New York Observer parla di “momento Judas”. Variety definisce questa apertura una “capitolazione storica al capitale tecnologico”.
Eppure l’Academy si illude di poter ancora parlare di “autorialità umana”, come se potessimo quantificare la componente creativa in una scena generata da GAN e machine learning. È un’illusione. Una farsa. E in fondo lo sappiamo. Un regista su Twitter l’ha detto meglio di chiunque altro: “Oggi l’Ai ti corregge l’accento. Domani scrive la sceneggiatura. Dopodomani vince l’Oscar.”
Gli scioperi del 2023? Un’eco lontana. Susan Sarandon lo aveva detto chiaramente: “Se qualcuno può prendere il mio volto, il mio corpo e la mia voce senza il mio consenso, non è una cosa buona.” Ma Hollywood ha deciso che il consenso è obsoleto, e l’Academy lo ha certificato. La risposta è cinica: non è né buono né cattivo. È inevitabile. E quando l’arte diventa inevitabile, smette di essere arte.
Oggi un animatore con 20 anni di esperienza guadagna meno di un ragazzino che sa scrivere un prompt per Midjourney. I magnati della Silicon Valley e i dirigenti degli studios brindano mentre gli artisti si trasformano in operai di una catena di montaggio invisibile. Il proletariato creativo è l’ultima vittima sacrificale sull’altare del progresso tecnologico.
Come ha scritto un critico del Guardian: “Stiamo premiando chi sa domare una macchina, non chi sa raccontare il mondo.” È come dare la medaglia al drone invece che al fotografo. E se un giorno un film generato al 90% dall’Ai vincesse l’Oscar, chi salirebbe sul palco? Il CEO? Il tecnico? L’avatar di un regista morto? O forse nessuno. Forse riceveremo un video di ringraziamento generato da un modello text-to-speech. Un premio che applaude se stesso.
Nel frattempo, noi piangiamo ancora davanti a certi film. Ma siamo sicuri che quelle lacrime non siano state previste, programmate, provocate? Magari ci commuoviamo perché un algoritmo ha calcolato che quel crescendo musicale, in quel preciso secondo, avrebbe toccato esattamente il nostro punto debole. È ancora arte, se l’intenzione non è umana?
Questo non è progresso. È una sostituzione. Mascherata da innovazione. Sventolata come libertà creativa. Ma ogni volta che accettiamo che “non sia né positivo né negativo”, stiamo facendo un passo in meno verso la verità. E un passo in più verso l’eutanasia dell’anima.
Stiamo assistendo non solo alla morte della creatività, ma alla sua crocifissione pubblica, celebrata come rivoluzione. E il pubblico, sedato da immagini sempre più perfette e vuote, applaude il proprio impoverimento spirituale. Quando ci sveglieremo, sarà troppo tardi: avremo dimenticato cosa significhi creare, e perfino cosa significhi essere umani.
Chiudo con le parole di Jaron Lanier, pioniere del digitale, che in tempi non sospetti avvertiva:
“Se rinunciamo alla paternità delle nostre storie, rinunciamo anche alla possibilità di essere reali.”
E se non siamo più reali, chi applaude davvero quando cala il sipario?
La prossima volta che vi commuoverete davanti a un film, fate questo esperimento: chiedetevi se state piangendo perché un’anima ha toccato la vostra, o perché un algoritmo ha calcolato perfettamente la vostra soglia emotiva. E poi chiedetevi se la differenza vi importa ancora. Perché se non vi importa, meritiamo esattamente il futuro sterile che ci attende.
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