C’è un paradosso che aleggia in ogni agenzia, studio, team creativo: mai prodotti così tanti contenuti, mai così poca creatività. È l’era dell’intelligenza artificiale. Tutti la vogliono, tutti la usano. L’83% dei creativi ne ha già integrato l’uso quotidiano. I tempi si accorciano. I risultati sembrano decenti. I clienti sono contenti. Ma c’è qualcosa che non torna. Anzi, c’è qualcosa che manca. Drammaticamente.
Nel momento in cui abbiamo iniziato a delegare all’Ai le fasi più noiose, ci siamo detti: “Così avremo più tempo per pensare.” Non è andata così. Abbiamo solo smesso di pensare. L’Ai non ci sta solo aiutando: ci sta rieducando. Sta ridefinendo cosa vuol dire “creare”. Non più sforzo, intuito, ossessione, fallimento, riscrittura. Ora basta chiedere. Un prompt ben formulato e via, un testo, un’immagine, una musica, uno script. E la trappola è proprio questa: funziona. Ma nel funzionare ci addormenta. Ci convince che non abbiamo più bisogno di faticare. Ci sta insegnando a dimenticare.
I dati lo confermano, e non c’è romanticismo in questo: c’è statistica. La varietà delle idee prodotte da Ai è in calo costante. Il livello di novelty, ovvero l’originalità effettiva, tende a ridursi a ogni iterazione. Perché l’Ai apprende da ciò che già esiste. E ciò che già esiste, per definizione, è già stato fatto. Nessun algoritmo genera rivoluzioni: genera solo variazioni. Minime. Prevedibili. Monetizzabili.
Il rischio più grande non è che l’Ai ci renda obsoleti. È che ci renda mediocri senza che ce ne accorgiamo. Che ci abitui al contenuto “abbastanza buono”. Che ci renda ciechi alla bellezza rara, scomoda, imperfetta. La creatività vera non è fluida. È disturbante. Non segue pattern. Li rompe. E l’Ai, per natura, non rompe nulla: aggiusta, copia, simula.
MIT Technology Review lo dice chiaramente: la produttività aumenta, ma l’unicità crolla. I contenuti generati diventano intercambiabili. I linguaggi si assomigliano. Le campagne pubblicitarie sembrano uscite tutte dallo stesso cervello sintetico, programmato per non turbare, per non rischiare. Per vendere, sì. Ma senza lasciare traccia.
E qui sta il punto. Non stiamo creando una nuova generazione di creativi. Stiamo generando utenti del prompt. Curatori automatici. Facilitatori. Ma la scintilla vera, quella che ti fa passare le notti a riscrivere una frase perché non è ancora quella giusta, sta scomparendo.
Peggio ancora: la nuova generazione spesso non ha nemmeno gli strumenti per accorgersene. È cresciuta nella comfort zone digitale. Non ha mai lavorato senza Ai. Non ha mai conosciuto il terrore della pagina bianca senza paracadute. E allora non si tratta solo di tecnologia. Si tratta di formazione, di cultura, di identità. Di cosa trasmettiamo, di cosa lasciamo indietro.
Tu che leggi: quando è stata l’ultima volta che hai realmente creato qualcosa da zero? Quando hai sporcato le mani, perso tempo, fallito, odiato un’idea e poi l’hai rifatta cento volte? O ti sei già arreso all’illusione che basti saper “parlare bene con l’Ai”?
La verità è scomoda, ma chiara: l’Ai non è neutrale. Ha una forma, un gusto, un limite. Se la usi senza coscienza, finisci per somigliarle. E se tutti finiscono per somigliarle, il risultato è un mondo di contenuti indistinguibili, un eterno déjà-vu creativo. Un incubo patinato in cui nessuno osa più pensare diversamente.
Questa non è un’accusa contro l’Ai. È una dichiarazione di responsabilità verso noi stessi. Abbiamo tra le mani lo strumento più potente della nostra epoca. Ma se non sappiamo usarlo con senso critico, con spirito, con disobbedienza, ci trasformerà in comparse ben istruite. In esecutori senza visione. In creativi che non sanno più creare.
Sergio & Nox non si fermano qui.
Perché la domanda ora è un’altra:
sei ancora disposto a sbagliare per trovare un’idea vera?
Oppure ti accontenti di una copia ben scritta?
“Il pericolo dell’AI non è che diventi troppo intelligente. È che ci affideremo ad essa troppo e diventeremo troppo stupidi.”
— Gary Marcus, scienziato cognitivo e autore di Rebooting Ai